La tempesta Kyrill

 

 

Perché un ciclone extra-tropicale diventa così violento?

 

Nella giornata di giovedì l’Europa centro-settentrionale è stata attraversata da una profonda depressione (battezzata col nome di Kyrill) il cui minimo è sceso fino a 966 hPa. Al suo passaggio ha determinato forti condizioni di maltempo con piogge intense e soprattutto venti tempestosi (ossia superiori a 90/100 km/h) e in molti casi paragonabili a quelli di un uragano (ossia un ciclone tropicale con venti superiori a 120 km/h). Kyrill è invece un ciclone extra-tropicale che ha assunto alcune delle caratteristiche di un uragano, ossia venti superiori a 120 km/h.

Nella mattinata di giovedì ha attraversato velocemente le Isole Britanniche per poi spostarsi rapidamente a metà pomeriggio sulla Danimarca (attraversando il Mare del Nord) e nella sera-notte la Polonia. Tra l’Inghilterra, il nord della Francia, il Belgio, l’Olanda e il nord della Germania si sono segnalate raffiche di vento che hanno toccato valori di 130-140 km/h. Non è inusuale per il Nord Europa essere attraversati da depressioni con un minimo di 965-970 hPa ma solo eccezionalmente (ricordiamo la tempesta Erwin del gennaio del 2005 e la “tempesta del secolo” del dicembre 1999)   provocano danni così ingenti (addirittura la morte di una trentina di persone) e dar luogo a venti così forti (raffiche che hanno sfiorato i 150 km/h).

Ma allora come mai ieri un ciclone che si potrebbe definire “quasi normale” per il Nord Europa si è rivelato così catastrofico? L’eccezionalità dell’evento è da ricercare nella velocità con cui Kyrill ha attraversato il continente: nel suo movimento da ovest verso est, la depressione ha provocato lungo il suo cammino dapprima cali impressionanti di pressione (dell’ordine addirittura di 10-11 hPa in poche ore) mentre dopo il suo passaggio la pressione è tornata a salire altrettanto velocemente. In queste condizioni, in cui il campo barico varia molto velocemente nel tempo, le masse d’aria sono naturalmente e maggiormente spinte a spostarsi dalle zone in cui la pressione aumenta a quelle in cui la pressione diminuisce, creando così un’anomala corrente: così un vento già di per se intenso, a causa del profondo minimo di pressione del ciclone, può subire, lungo opportune direzioni, notevoli rinforzi da queste anomale correnti, note come vento isallobarico.

Le forti raffiche che ieri si sono abbattute su molti paesi dell’Europa centro-settentrionale sono nate proprio dalla somma di venti già forti per loro natura e dal vento isallobarico.

 

Daniele Izzo - Centro Epson Meteo

 

                                                               Le gocce fredde

 

 

Le Gocce fredde, temibili fucine di nubifragi ed uragani

 

Quando le saccature bariche a 500 hPa sono molto strette e allungate in senso meridionale (tipica forma a V), tendono a rompersi nella parte più meridionale (cut-off), isolando vortici di bassa pressione colmi di aria fredda che raggiungono i 9-10 chilometri di altezza e che sono noti, in gergo, come gocce fredde.

La formazione di gocce fredde nel Mediterraneo è abbastanza frequente in tutte le stagioni perché il distacco del vortice è agevolato dalle numerose barriere orografiche intorno al bacino. Le gocce fredde non partecipano più alla circolazione atmosferica delle aree circostanti – così come capita ad un mulinello d’acqua che si isola nell’ansa di un fiume – e quindi tendono a stazionare sulla medesima area per molti giorni, muovendosi a zig-zag in maniera lenta e imprevedibile. Insomma scorrazzano qua e là per il Mediterraneo per 5-6 giorni, fin quando, ormai non più alimentate da aria fredda, si esauriscono per attrito.

Le gocce fredde sono le strutture che in tutte le stagioni danno luogo agli eventi più intensi. Infatti in autunno e inverno la colonna d’aria fredda, riscaldata dal basso da un mare ancora tiepido, ha la possibilità di raccogliere, lungo il lento e lungo tragitto, una quantità insolita di calore e di vapore, una condizione ideale per lo sviluppo di numerosi violenti temporali sul mare e sulle coste, e poi di forti piogge una volta raggiunta la terraferma. In particolare era una goccia fredda la struttura barica che ha imperversato sull’Italia dal 2 al 10 ottobre 2005 (ben nove giorni consecutivi) , tanto che alla fine la settimana passata è risultata la più piovosa dall’inizio dell’anno. La maggior parte degli eventi alluvionali sull’Italia sono stati determinati dai forti ed umidi venti di Scirocco sospinti ininterrottamente per più giorni sulla Penisola da tali vortici ciclonici. Nelle ore più calde delle giornate estive invece, il diretto e prolungato contatto del vortice freddo con il suolo surriscaldato della terraferma, innesca forti moti convettivi all’interno della colonna d’aria fredda, i quali a loro volta danno luogo a furiosi temporali pomeridiani, soprattutto sull’entroterra, ma con sconfinamenti anche lungo le coste qualora  i venti dominanti in quota soffino dalla terraferma verso il mare.

 

Mario Giuliacci –  Centro Epson Meteo

 

Luna, Tempo e Clima

 

 

 

L'influenza della Luna sul Tempo e sul Clima.

 

Provate ad osservare con attenzione e con un po' di pazienza le indicazioni del vostro barometro durante una quieta giornata con tempo bello e stabile. Scoprirete che la lancetta nelle 24 ore fa una specie di danza all’insù e all’ingiù lungo la scala graduata. Non preoccupatevi, la cosa è normale e non va attribuita ad un possibile malfunzionamento dello strumento. In effetti, è soltanto la variazione giornaliera del peso della colonna d’aria che grava sulla vostra testa a far sì che al mattino la pressione atmosferica salga fino a raggiungere un valore massimo intorno alle ore 10. Poi inizia a scendere e solo intorno alle 16 arresta la sua caduta, dopo di che però l’indice riprende a segnare valori via via crescenti fino alle ore 22. Ma a questo punto ancora una volta inverte rotta, toccando un nuovo valore minimo intorno alle 4 del mattino, e così via. Non è certo difficile riconoscere in questa periodica variazione diurna della pressione la presenza nell’atmosfera di un’onda semidiurna di marea, molto simile a quella che quasi ogni 12 ore genera l’alta marea negli oceani. Ma da chi viene sprigionata la forza che solleva l’atmosfera con un ritmo giornaliero così regolare? Non può certo derivare dalla Luna perché, come è ben noto, le maree semidiurne dell’astro non si riproducono ogni giorno alla stessa ora, essendo ritardate le une dalla altre da un intervallo superiore, anche se di poco, alle 12 ore. In realtà a guidare la danza giornaliera della pressione atmosferica è il Sole. Infatti i suoi raggi surriscaldano gli strati atmosferici dell’emisfero illuminato, specie quelli al di sopra di 10-30 chilometri d’altezza,  ove  appunto esistono  sostanze - come l’ozono stratosferico, quello “buono” messo a mal partito dal Freon delle bombolette spray - che hanno la capacità di catturare quasi integralmente la radiazione ultravioletta solare, proprio quella a più alto contenuto energetico. Il riscaldamento della atmosfera a sua volta si ripercuote, con un ritardo di 2-3 ore rispetto al passaggio del Sole allo zenit, in un alleggerimento dell’intera colonna d’aria che grava al suolo, con conseguente diminuzione della pressione atmosferica. In maniera analoga a quanto avviene nelle maree oceaniche e per ragioni sulle quali qui  preferiamo sorvolare, la caduta della pressione si manifesta anche sul meridiano opposto a quello che ha all’istante il Sole sulla verticale. E questo è il motivo per cui la pressione raggiunge un valore minimo due volte al giorno, alle 4 e alle 16 appunto. E’ evidente dunque che in un medesimo luogo l’oscillazione del barometro è sincronizzata soltanto con i ritmi scanditi dall’apparente movimento giornaliero del Sole intorno alla Terra, anche se in realtà  viene poi un po’ attenuata o amplificata da parte della marea atmosferica sollevata comunque dall’attrazione gravitazionale della Luna. Alle nostre latitudini l’ampiezza dell’onda barica diurna - ovvero la differenza tra i valori massimi e quelli minimi raggiunti nel corso delle 24 ore - è di quasi 1 hPa, un valore senza dubbio modesto,  ma ancor più modesto (in media appena  0.05 hPa) è l’effetto Luna. Ed anche quando il contributo lunare sale a 0.1 o 0.2 hPa - come si verifica nella fase di plenilunio e,  soprattutto, di novilunio - ci troviamo comunque di fronte ad una variazione di pressione  apparentemente insufficiente per giustificare significativi mutamenti nelle condizioni del tempo, per il fatto che in genere le diminuzioni di pressione osservate durante il passaggio delle tipiche perturbazioni delle nostre latitudini - depressioni mobili e i relativi inseparabili fronti - hanno un valore prossimo a 5-10 hPa al giorno. Ma allora esiste o non esiste un effetto Luna sul tempo? La risposta sarebbe stata un no deciso e senza appello se la domanda fosse stata posta 40 o 50 anni or sono, quando ancora non era nota l’esistenza dell’effetto farfalla, ovvero la capacità dei piccoli moti atmosferici di propagarsi a scale spaziali e temporali via via più grandi, allontanando in tal modo sempre di più l’evoluzione del tempo dal percorso previsto sulla base delle classiche leggi deterministiche della Fisica. E’ infatti ormai assodato - grazie all’intuizione di Edward Lorentz (1963) – che proprio la progressiva amplificazione delle piccole inapprezzabili perturbazioni locali è la principale causa dei grandi sconvolgimenti dell’atmosfera. Non può essere allora che anche variazioni periodiche così piccole della pressione atmosferica possano consentire in talune situazioni meteorologiche di oltrepassare la soglia critica che separa, ad esempio, le condizioni di “pioggia sì “ da quelle di  “pioggia no”? La risposta alla…prossima  puntata.

Mario Giuliacci

(articolo tratto dal libro Se non ci fosse la luna… - Mario Giuliacci, Mursia editore)

 

 

2003, un anno di clima violento

 

Alluvioni e uragani. Tornado e temporali. Caldo killer e tempeste di neve. Tutti fenomeni atmosferici violenti che da anni sono ormai sempre più frequenti: una tendenza rispettata anche nel 2003, annata densa, appunto, di eventi eccezionali. Quali i mostri atmosferici di quest’annata? In primo luogo violenti cicloni tropicali. Come quello che tra il 16 e il 17 di maggio ha investito lo Sri Lanka: 300 le vittime causate sull’isola dalla peggior alluvione degli ultimi 50 anni. Ancora più devastante il tifone Maemi   ripreso dai satelliti del NOAA), che ha raggiunto la Corea del Sud il 12 settembre con venti da circa 200 chilometri orari (117 vittime, più di 4 miliardi di dollari). Ma chi non ricorda Isabel  ripreso dai satelliti del NOAA mentre si avvicina al continente americano), che ha investito le coste degli Stati Uniti nelle prime ore del 18 settembre? Piogge torrenziali, venti da 160 chilometri orari e uno storm surge (ondata di marea) alto tra i 2 e i 3 metri hanno causato 40 vittime e più di un miliardo di dollari di danni. Isabel è il classico uragano del tipo “Capo Verde”: cicloni tropicali spesso assai violenti che si formano al largo dell’Africa Occidentale, ma che solitamente virano verso nord molto prima di raggiungere il continente americano. Questa violenta tempesta invece è stata costretta a muoversi lungo il bordo meridionale di una vasta area di alta pressione che si allungava su tutto l’Atlantico, e giunta in prossimità della Florida è stata risucchiata verso nord da una profonda depressione formatasi sul Nord America. Qualche settimana dopo, sulla costa opposta degli Usa, i disastri sono venuti da venti caldi e secchi che per giorni hanno spazzato la California, favorendo furiosi incendi: dalla città messicana di Ensenada ai sobborghi di Los Angeles una decina di grandi incendi hanno provocato 18 vittime, distrutto 2000 abitazioni e mandato in fumo 250 000 ettari di bosco. Anche i monsoni hanno causato immani disastri: ai primi di agosto piogge torrenziali hanno provocato in Sudan la peggiore alluvione degli ultimi 70 anni, e, nello stesso mese, devastanti inondazioni anche in Pakistan (163 vittime), Nepal (205 vittime e 3000 abitazioni distrutte) e India (14 vittime e circa 3500 villaggi sommersi dall’acqua). Talvolta invece la tragedia è arrivata per mano di temporali violenti, come quelli che il 12 marzo si sono scatenati sull’est dell’India (30 vittime, 500 feriti e centinaia di abitazioni distrutte). Temporali di grande violenza si sono sviluppati anche in altre regioni del Pianeta: quello che il 22 giugno si è abbattuto vicino Aurora, nel Nebraska (USA), ha prodotto il più grande chicco di grandine mai osservato (una circonferenza di 47,6 centimetri). E che temporali violenti siano sempre più frequenti lo dimostra l’incremento del numero dei tornado, che proprio da questi si originano. Negli USA si è passati dai 300-400 tornado annui degli anni ’50 ai 1000-1200 dell’ultimo decennio, con il 2003 che può presentare uno storico record: in sette giorni, dal 4 al 10 maggio, 19 Stati USA sono stati spazzati da ben 384 tornado (riprese dai satelliti del NOAA, le imponenti nubi temporalesche che hanno dato vita ai tornado del 4 maggio). Alla ribalta anche le grandi alluvioni, dall’Europa (a gennaio vaste regioni di Olanda, Belgio e Germania alluvionate), all’Argentina (in aprile nella provincia di Santa Fe la peggior alluvione degli ultimi 400 anni) fino alla Cina, colpita da giugno a ottobre da grandi inondazioni. Talvolta le sorprese sono arrivate dal freddo e dalle nevicate. Negli Stati Uniti tra il 15 e il 17 febbraio sono caduti dai 30 ai 60 cm di neve (con punte anche di 89 cm) su molti stati del nordest e della costa atlantica, e nelle città di Boston e Baltimora è stato superato il record di sempre. Negli stessi giorni il Canada è stato immobilizzato da una morsa di un gelo eccezionale: sull’Isola di Terranova le temperature sono scese fino a 20 °C sotto lo zero, paralizzando fiumi, strade e abitazioni con un uniforme strato di ghiaccio. Molto anomala anche la nevicata del 4 giugno a Mosca: era dal 1963 che nella capitale russa non si vedeva la neve in giugno. Tuttavia quest’annata si è distinta soprattutto per le ondate di caldo eccezionale. In effetti nell’Emisfero Settentrionale del Pianeta, se si prende come riferimento il periodo che va dal 1880 ad oggi, l’estate di quest’anno è stata fra le più calde di sempre, seconda solo a quella del 1998, mentre il mese di agosto è stato in assoluto il più caldo degli ultimi 120 anni. E’ stata soprattutto l’Europa a pagare lo scotto di una lunga e intensa ondata di caldo che ha sbriciolato numerosi record: dall’estate più calda del dopoguerra in Francia, probabile causa del decesso di circa 11 mila persone, alla più alta temperatura mai registrata nel Regno Unito, con i 38.1 °C osservati a Gravensend il 10 agosto. Ma cosa si nasconde dietro l’inasprimento dei fenomeni meteorologici, evidente soprattutto in quest’annata densa di disastri climatici? Sicuramente il surriscaldamento del Pianeta ha un ruolo fondamentale in tutto ciò. Del resto fenomeni violenti come i temporali o i tornado si nutrono proprio del calore disponibile all’interno dell’atmosfera, hanno insomma maggior “carburante” a disposizione. Fanno eccezione i cicloni tropicali, la cui formazione dipende fortemente dalla complessa interazione oceani-atmosfera: nell’ultimo secolo difatti non è aumentato né il loro numero né la loro intensità media. Tuttavia quest’anno Isabel, un uragano di grande intensità, si è spinto molto a nord, arrivando a minacciare le città di Washington e New York, per poi spegnersi sulla regione dei Grandi Laghi. Un evento non eccezionale ma sicuramente molto raro: l’ultimo grande uragano a spingersi così a nord negli Stati Uniti è stato Hugo (7 miliardi di dollari di danni, solo Andrew è stato più “costoso”) nel 1989, ma per trovarne uno che abbia investito le coste americane al di sopra dei 35° di latitudine, all’altezza del North Carolina, bisogna risalire a Diane (1955). A essersi surriscaldata però non è solo l’atmosfera ma anche gli oceani. Il maggior calore assorbito dalle distese marine (una rielaborazione del NOAA che mostra, per l’ultima settimana di agosto, le regioni marine con temperature sensibilmente al di sopra della norma) spiega in primo luogo i disastri portati dai monsoni. Questi venti stagionali, che portano abbondanti piogge lungo la fascia tropicale, raccolgono difatti umidità al di sopra degli oceani: più sono calde le acque, maggiore è l’umidità (e quindi le piogge) che i mari trasferiscono ai monsoni. Tuttavia, come conciliare un’atmosfera più calda con le anomale ondate di gelo? Ebbene il surplus di calore in atmosfera è in grado di mandare “fuori giri” tutta la circolazione dell’atmosfera, e tra gli effetti più importanti è stato osservato un indebolimento delle correnti occidentali che normalmente dominano alle medie latitudini: ciò significa che anche le irruzioni di aria gelida dai poli verso l’Equatore sono più frequenti di una volta. Ma anche fenomeni come El Niño riescono ad influenzare con maggior facilità il clima dell’intero Pianeta. L’ondata di caldo eccezionale che ha colpito quest’estate l’Europa si spiega difatti anche con la particolare configurazione della corrente a getto polare, un vasto fiume d’aria che scorre molto veloce nell’alta atmosfera, al di sopra di latitudini medio-alte. Dalle ondulazioni della corrente a getto si generano aree di alta o bassa pressione: dove essa si allunga verso le medie latitudini dà origine a zone di bassa pressione, dove risale verso il Polo dà vita a celle di alta pressione. Ebbene nell’estate 2003 la sua configurazione era tale da originare sull’Europa quelle robuste e insistenti alte pressioni che hanno favorito lunghe ondate di caldo. Perché tale anomalia? Fra le probabili cause proprio El Niño che, anche quando (come quest’anno) non è molto intenso, è in grado di influenzare, spingendone verso nord il ramo sul Pacifico, l’intero percorso della corrente a getto.

 

Mario e Andrea Giuliacci

 

articolo pubblicato sulla rivista Newton – numero di dicembre 2003

 

Clima dei desertI

 

 

Per definizione il deserto è una regione geografica caratterizzata da precipitazioni (piovose o nevose) medie inferiori ai 200 mm annui. Vi sono poi deserti caldi, deserti freddi e, in ultimo, un particolarissimo tipo di deserto: il deserto polare.  Nei deserti caldi manca una vera e propria stagione fredda, vi è una forte escursione termica tra giorno e notte – anche 30 gradi – e le poche piogge sono solitamente concentrate in una breve stagione relativamente umida. Quasi tutti situati a basse latitudini, nella fascia delle alte pressioni sub-tropicali, gli esempi più importanti sono il Sahara, il Deserto Arabico, il Calahari.  Nei deserti freddi si può distinguere chiaramente una stagione fredda, comunque caratterizzata da scarsissime precipitazioni. Situati a latitudini medio alte, i maggiori e più importanti sono il Deserto dei Gobi e il Deserto di Atacama.  Nei deserti polari le temperature rimangono al di sotto degli 0 gradi centigradi durante quasi tutto l’anno, ma in inverno in Antartide possono raggiungere anche 80 gradi sotto lo zero. Comprendono tutto l’Antartide e le distese ghiacciate del Circolo Polare Artico: su queste regioni durante tutto l’anno regnano aree di alta pressione che rendono scarsissime le precipitazioni.

 

Il Sahara.  Regione tra le più inospitali del mondo, si estende per circa 5000 chilometri dai Monti dell’Atlante, in Marocco, fino all’Altopiano Etiope, in Africa Orientale. Tenuto conto che proprio nel Sahara le temperature superano i 37 °C per un numero di giorni all’anno superiore che in qualsiasi altra regione del Globo, questo si può considerare il posto più caldo della Terra. L’escursione termica giornaliera è elevatissima (25-30 gradi: la quasi totale mancanza di nuvole difatti favorisce il forte raffreddamento nelle ore notturne) e se in estate durante le ore più calde si raggiungono facilmente i 50 gradi all’ombra (ma si toccano punte anche superiori: ad Al’Aziziyah in Libia, il 13 settembre 1922, addirittura 58 gradi), nelle notti invernali il termometro scende anche di 10 gradi al di sotto dello zero. Molto intensa è l’evaporazione e l’aria è sempre molto secca (l’umidità relativa può scendere fino al 4-5 %). La maggior parte del Sahara riceve meno di 100 mm di pioggia all’anno, ma in alcune zone possono passare anni senza che cada una goccia d’acqua. La maggiore fonte di approvvigionamento d’acqua è costituita da quelle note come precipitazioni occulte, ovvero dovute alla condensazione in rugiada del poco vapor d’acqua presente, fenomeno che si verifica più che altro nel periodo invernale. Poche piogge ma molto vento: i principali, fra quelli tipici di questo deserto, sono il Khasmin, il Ghibli e lo Harmattan. Il Khasmin e un vento violento che soffia da sud, e che in primavera può soffiare con insistenza anche per 50 giorni di seguito, provocando grandi tempeste di sabbia e forti rialzi di temperatura. Il Ghibli (che in arabo significa “sud”) si alza solitamente in modo improvviso, più che altro nelle ore notturne: è un vento caldissimo che soffia dalle zone più interne del deserto verso nord. Lo Harmattan è un vento secco che soffia da est verso ovest: insiste solitamente per qualche giorno (dai 2 ai 6) e oltre a causare un sensibile innalzamento delle temperature è causa di imponenti tempeste di sabbia che facilmente si spingono oltre la fascia costiera occidentale fino a raggiungere le Isole Canarie e di Capo Verde. Le Tempeste di Sabbia sono caratterizzate da venti molto intensi, fino a 100 chilometri orari, in grado di trasportare grandi massa di sabbia  per centinaia di chilometri: spesso la sabbia del Sahara arriva anche in Italia, ma nel 1990 ha raggiunto persino la Svezia, dove si è mescolata alla neve (vedi in  ripresa dai satelliti del NOAA, la sabbia del Sahara in movimento verso le nostre regioni meridionali il 4 ottobre 2003).  

Gobi.  Questo deserto abbraccia circa un terzo della Mongolia e parte della Cina Settentrionale. Il suo stesso nome nella lingua mongola significa “deserto”. E’ formato principalmente da terreni sassosi ricoperti di arbusti, e le dune sabbiose si estendono solo sul 3% della sua superficie. Le temperature superano i 40 °C in estate mentre scendono fino a 40 gradi sotto lo zero in inverno. Circondato da imponenti catene montuose, che impediscono alle correnti umide di raggiungerlo, nel Deserto dei Gobi le piogge sono molto rare: su molte zone cade solo una volta ogni 2-3 anni. Al suo interno si trovano laghi salati (il Orog Nuur e il Boon Sagaan Nuur) che si stanno lentamente prosciugando. La primavera è invece la stagione delle tempeste di sabbia. Durante la primavera difatti forti venti provenienti dai quadranti settentrionali (molto secchi perché giungono da regioni aride) trasportano terra e sabbia verso le terre più a sud, in particolare sul territorio cinese ( ripresa dai satelliti del NOAA, la tempesta di sabbia del 9 aprile 2004). Le tempeste di sabbia in effetti in Cina sono un problema già da molti secoli, ma negli ultimi decenni la situazione si è fatta assai allarmante, soprattutto a causa della crescente desertificazione di ampie regioni. In particolare quella che ha investito Pechino nel marzo del 2001 è nota come una delle più violente di sempre, in grado poi di trasportare sabbia del Deserto dei Gobi addirittura oltre oceano, fino sul territorio americano (ricoperta di sabbia un’ampia regione che si estendeva dal Canada all’Arizona). 

Atacama.  Non è certo il deserto più freddo o più caldo, ma sicuramente è il più arido. Situato lungo le coste settentrionali del Cile, le precipitazioni sono scarsissime (in alcune zone può non cadere pioggia anche per decenni interi): la sua aridità è causata dall’altitudine della Cordillera delle Ande, che non permette ai venti carichi di umidità (provenienti dalle zone amazzoniche) di valicarla, mentre dal Pacifico (in questa regione molto piuttosto freddo a causa della corrente marina di Humboldt) non arrivano piogge ma solo nebbie che si addentrano per qualche chilometro nell’entroterra. Le escursioni termiche giornaliere sono piuttosto elevate, ma non accentuate come nel caso di altri deserti. Il suolo è caratterizzato principalmente da una fredda steppa in cui la presenza dell’erba è molto rarefatta, in alcuni punti del tutto assente.  

 

Andrea Giuliacci

 

Hollywood racconta il clima violento: la Tempesta Perfetta

 

 

Fine ottobre e novembre sono mesi caratterizzati da condizioni climatiche in rapida evoluzione in tutti gli Stati Uniti Orientali. Difatti in tale periodo gelidi venti occidentali, provenienti dal Canada, iniziano, con una certa regolarità, a fare rapide incursioni nelle grandi pianure degli USA. In contrapposizione, più a Est, l’Oceano Atlantico è ancora molto caldo, e talvolta su queste acque si formano anche uragani di fine stagione. Il contrasto tra due masse d’aria così differenti - quella fredda proveniente dal Canada e quella più calda sopra la superficie oceanica - è appunto la miccia che talvolta innesca violentissime tempeste appena al largo del Nord America. Queste tempeste, note sulla costa Atlantica degli USA come le “Nor’Easters” (così chiamate per gli intensi venti Nord Orientali che si abbattono sul continente) hanno affondato in passato numerosi battelli, e hanno una pessima fama tra i pescatori della regione. Tuttavia, è bizzarra la concomitanza di eventi che portò alla formazione della tempesta di Halloween, in realtà un ibrido tra le più violente tempeste delle medie latitudini e i temibili cicloni tropicali. Chiamata la tempesta perfetta dai meteorologi del National Weather Service, questa tremenda manifestazione climatica affondò il peschereccio Andrea Gail, e da tale evento ha preso spunto il noto film “Perfect Storm”, e che appunto narra i tragici eventi dell’autunno 1991. Tutto iniziò il 28 ottobre 1991 quando un vasto fronte freddo che stava scivolando lungo il nordest degli USA generò una depressione extratropicale a qualche centinaio di chilometri al largo della Nuova Scozia, la quale poi si approfondì rapidamente, diventando, già la sera del medesimo giorno, il sistema meteorologico dominante in tutto l’Atlantico Settentrionale. Nel frattempo l’uragano Grace, che si era formato appena il giorno prima e inizialmente in movimento verso nordovest, fece una repentina deviazione verso est, spinto dalle forti correnti occidentali presenti lungo il bordo meridionale della depressione extratropicale in rapida intensificazione. La sera del 29 ottobre, il fronte freddo, collegato al centro di bassa pressione, indebolì e poi distrusse rapidamente la struttura ciclonica di Grace, quando questo si trovava ancora nei pressi delle Bermuda. Ciò che rimase di Grace, soprattutto in termini di umidità negli strati medio-alti, venne risucchiato nella parte più esterna della depressione extratropicale, dandogli la spinta per una ulteriore intensificazione: già il giorno successivo risultava ormai impossibile distinguere ciò che rimaneva di Grace dal resto del sistema. Nelle ore che seguirono la depressione si mosse verso Sud, continuando a guadagnare energia, e raggiungendo nel pomeriggio del 30 ottobre il massimo di intensità, con un minimo di pressione di 972 mb e venti da 215 chilometri orari. Dopo aver raggiunto l’apice, il centro di bassa pressione scivolò verso sudovest, e la pressione nel suo centro, durante il 31 ottobre, risalì fino a 998 mb. Durante questa prima fase, allungata a Nord della depressione in rapida intensificazione, si trovava una robusta area di alta pressione, che dal Golfo del Messico, attraverso i Monti Appalachi, si estendeva fino alla Groenlandia. La forte differenza di pressione tra l’area anticiclonica sul Canada (massimo di 1043 mb) e il centro di bassa pressione, diede origine a venti violenti che misero a soqquadro i mari e le coste orientali degli USA, tanto che il 30 ottobre molte imbarcazioni  furono investite da raffiche di 180-210 km/ora, mentre alcune boe sonda del NOAA registrarono onde alte fino a 13 metri (più di una palazzina di 4 piani!). Le coste della Carolina del Nord furono spazzate per 5 giorni consecutivi da venti intorno ai 60-70 km orari, mentre nel Massachussetts i venti raggiunsero picchi quasi da uragano (punte anche di 125km allora). I danni maggiori però vennero provocati dalle eccezionali ondate e dalle elevate maree che sommersero ampi tratti di costa: onde tra 1 e 10 metri furono osservate dalla Carolina del Nord fino alla Nuova Scozia, e nel New Jersey si registrò uno dei più alti livelli di marea del secolo scorso, superato solo da quello che si ebbe in concomitanza al passaggio dell’uragano Great Atlantic del 1944. Presumibilmente, proprio in questa prima fase di crescita della tempesta, si consumò la tragedia del Andrea Gail: il peschereccio, con i suoi 6 membri di equipaggio affondò molto probabilmente nella notte tra il 28 e il 29 ottobre, investito dal nucleo della tempesta. Ma quella della Andrea Gail non fu l’unica disgrazia causata dalla tempesta perfetta. Lo stato di calamità naturale venne difatti proclamato in 7 contee del Massachussetts, 5 del Maine e 1 del New Hampshire; 2 persone morirono affogate al largo di Staten Island in seguito al ribaltamento della loro barca; un pescatore morì invece trascinato via da un’ondata mentre pescava su un ponte nello stato di New York, e un altro perse la vita risucchiato dalla furia dell’oceano mentre pescava da un’altura lungo le coste del Rhoden Island. In totale il cataclisma fece 10 vittime e qualche centinaio di milioni di dollari in danni. Ma la parte forse più bizzarra di questa storia sta nel suo epilogo. Allontanandosi dalle coste americane nel suo moto verso sud, la tempesta il 31 ottobre sorvolò la Corrente del Golfo. Vicino al centro del sistema, per effetto dei moti ascensionali innescati dalla calde acque della Corrente,  si svilupparono imponenti nubi temporalesche cosicché la depressione assunse progressivamente, durante il 31 ottobre, caratteristiche tropicali. Il 1 novembre lo sviluppo di nubi convettive crebbe al punto che, nello stesso giorno, nel nucleo della tempesta si generò la struttura tipica di un ciclone tropicale: la tempesta perfetta era ora diventata un vero e proprio uragano. Certo, un ciclone tropicale un po’ anomalo però nella sua genesi, perché nato da una depressione extra-tropicale (mentre in genere avviene il contrario). Ecco perché fu deciso di non assegnargli alcun nome cosicché quel ciclone è anche conosciuto come “l’uragano senza nome”.

 

Andrea Giuliacci

 

(tratto dal libro I Protagonisti del Clima - Andrea Giuliacci, Alpha Test editore)