Curiosità
1)
I lavori della nonna
2)
I consigli della nonna
3)
Come stirare in casa ( la nonna raccomanda )
Le lavandaie
Le ricamatrici
Le sarte
Le camiciaie
Le materassaie
Le Lavandaie
Qualche panno piccolo si poteva lavare in casa, per il grosso, però, si
doveva andare alle fonti comuni: una grande e una piccola.
L'acqua in casa di doveva portare dalle cannelle con le brocche o con i
secchi, alle fonti, invece, arrivava con un getto potente, limpido e puro.
Le due vasche, tutte le sere, venivano svuotate e ripulite. La mattina
presto le lavandaie ambivano ad essere prime a risciacquare il loro bucato
in quell'acqua così trasparente da far vedere il fondo.
Questa era quasi l'ultima fase della lunga e faticosa lavatura che era
cominciata due giorni prima. I panni sporchi erano stati portati alla
fonte e bagnati nella vasca grande (la piccola era usata solo per i panni
delle persone ammalate), insaponati e strusciati con la spazzola dura di
saggina, strizzati e poi riportati a casa. Qui i panni venivano sistemati
nella grossa conca che stazionava in cucina vicino al focolare acceso:
prima le grosse lenzuola tessute a telaio, poi mano a mano i panni sempre
più piccoli.
Stecche di legno larghe circa 10 cm. e lunghe 60-70, venivano infilate
intorno al bordo della conca e così si creava spazio per tutti i panni. Si
stendeva quindi il cenerone (una grossa fitta tela che serviva per
filtrare il ranno) e su questo tanta cenere passata prima allo setaccio.
L'acqua, già al fuoco nel paiolo, veniva presa appena tiepida (l'acqua
troppo calda avrebbe incotto il sudicio), con il pignatto e versata tutta
sopra la cenere. Quest'acqua, così arricchita di proprietà detergenti,
diventava ranno, filtrava nei panni lentamente e non usciva fino a quando
la lavandaia non toglieva il grosso tappo di sughero, foderato di stoffa,
infilato nel foro alla base della conca. Il ranno, infatti, si raccoglieva
tutto in fondo grazie al piatto di smalto che veniva messo capovolto nel
fondo prima di inconcare i panni.
La conca stava sollevata da terra su due mattoni o due grossi pezzi di
legno, così che il ranno fuoriuscito poteva essere raccolto in una tinozza
e riversato nel paiolo per una seconda scaldatura, questa volta più forte,
poi rovesciato nuovamente sulla cenere. Questo procedimento a temperatura
sempre più alta continuava per 4-5-6 volte e più, finché il ranno non
fuoriusciva quasi bollente. L'ultima bollitura rimaneva nella conca, ben
chiusa dal tappo, per riposare: i panni: ora si imbiancavano e si
profumavano in quell'ammollo. Solo a notte veniva tolto il tappo e
raccolto nel secchio il ranno.
Quest'ultimo ranno serviva ancora, era prezioso: come si potevano
altrimenti pulire quelle ballette grezze e sudicie, che, invece, lavate e
imbiancate potevano servire per mille usi, o quei calzoni che gli uomini
usavano tutti i giorni pieni di frittelle e inzaccherati nelle stalle, o
gli stracci che si davano in terra sui mattoni per pulire e disinfettare.
Ma c'era perfino chi per lavarsi la testa aspettava il ranno. Fare il
bucato, perciò, era una faccenda pesante, faticosa e lunga, ci voleva una
salute di ferro, braccia buone e mani grandi e forti, chi era deboluccia o
con le mani piccole, non ce l'avrebbe fatta, pur con la buona volontà, a
maneggiare quei panni grossi e resi più pesanti perché bagnati.
I bucati venivano stesi sulle ginestre e sui cespugli battuti dal sole ed
arieggiati dal vento fino al tramonto. Prima però che il sole sparisse, i
panni ben asciutti erano già stati tolti, piegati e avvolti in un telo o
in una coperta vecchia pulita, fermata con due nodi e posta sopra la testa
per portali a casa.
Le Ricamatrici
Qualsiasi sacrificio, ma il corredo andava fatto!
Era quasi un impegno morale, appena nasceva una femmina si pensava subito
a prepararle il corredo, anche nelle famiglie più modeste.
Poteva variare nella quantità dei capi a seconda delle possibilità
economiche (tutto di 6, tutto di 12, ma si poteva arrivare anche a 18 di
tutto), non però nelle qualità delle stoffe e soprattutto nella
confezione. Tutto quello che poteva essere fatto a telaio veniva affidato
alle tessitrici: lenzuola a due e a una piazza, federe, salviette con le
frange intrecciate ad arte dalla stessa tessitrice, asciugamani ed
asciughini che a volte venivano riquadrati con filo rosso , così
resistente, che il colore non si sbiadiva nemmeno per i tanti bucati in
quelle conche bollenti per il potente ranno. Poi c'erano i serviti da
tavola: tovaglie e tovaglioli per 12 o 6 persone lavorate ad opera (
intrecci di cotone fino e lino).
I capi di stoffa fina venivano, invece, affidati alle ricamatrici.
Tutte le ragazze ambivano ad aver ricamato almeno un completo, non fosse
altro per esibirlo sul letto il giorno del matrimonio e nei giorni subito
dopo un parto, quando la puerpera riceveva le visite. Il giorno delle
nozze tutti gli invitati erano fatti passare nella camera degli sposi. La
stanza colpiva per l'imbiancatura di fresco, per le tende nuove ricamate e
per il letto tutto rifatto con il completo più bello: il lenzuolo la cui
rovescia con la sua sfilatura, gli intagli, i ricami, prendeva vita dalla
coperta damascata marrone con i rilievi in oro giallo, le coprifedere che
spiccavano sui cuscini ripetevano, in piccolo, il ricamo del lenzuolo,
come pure i due asciugamani appesi ai ferri del lavamano già pronto con la
sua catinella e la brocca piena d'acqua.
In campagna si usava che la sposa celando la timidezza, con un sorriso
impacciato, offrisse ai visitatori un goccio di vin santo nei bicchierini
già disposti su un vassoio sul canterano. Gli invitati mentre accettavano
il piccolo rinfresco, lasciavano nel vassoio accanto, una mancia.
"È una bella moda questa, dopo il regalo anche la mancia!" ironizzava
qualcuno sottovoce, eppure questo era il vero regalo per gli sposi: soldi
tutti loro, i regali venivano messi in famiglia. L'orgoglio della sposa
era però custodito nel baule, che spiccava in un angolo della camera.
Lì c'era il suo corredo, la sua dote! L'aveva già fatto ammirare capo per
capo, legati con treccioli di vari colori, alle amiche e a tutto il
vicinato prima di risistemarlo con cura amorosa nel baule nuovo di zecca
che il falegname aveva appena portato per poi caricare il tutto su un
carro per trasferirlo nella sua nuova casa. Dalle lenzuola alle federe,
dall'asciugamano ai tovagliati, dai fazzoletti da naso ai pannolini, dalle
camice da notte a quelle da giorno molte di queste abbottonate sulle
spalle per il futuro allattamento, tutto era stato marcato a punto sodo o
a punto in croce.
La maestra ricamatrice impartiva lezioni a tutte le ragazze, perché finito
l'obbligo scolastico, si doveva apprendere un mestiere, che poteva essere:
ricamatrice, sarta da donna o da uomo. Fra tutte queste scolare si
evidenziarono quelle che possedevano un'attitudine spiccata per il ricamo,
il gusto del colore, del bello e molta fantasia.
Le giovani continuavano il lavoro del ricamo anche dopo sposate, era in
fondo un aiuto sicuro per mandare avanti la famiglia. Le donne che
ricamavano cercavano di sottrarre più tempo possibile ai lavori domestici
e soprattutto al riposo. Eccole lì sedute alla finestra più vicine
possibile per rubare anche l'ultimo filo di luce, a consumarsi gli occhi
su quel lavoro di pazienza che cresceva tanto lentamente sotto quell'ago
svelto.
Il lavoro veniva conservato, con grande cura, in una vecchia federa e
custodito, in inverno, sempre lontano dai bracieri.
Le richieste di lavoro venivano soprattutto dalle famiglie dei poderi, in
cui c'erano i soldi, ma le donne non avevano né tempo né arte per
ricamare, comandate com'erano dal capoccia a lavorare nei campi, nella
stalla o badare alle pecore. Nella famiglia contadina, formata da tanti
nuclei, i matrimoni erano frequenti e tutti, in casa, ci tenevano tanto a
non scomparire o ad essere da meno dell'altro.
Le Sarte
L'opera delle sarte era più remunerativa. "La macchina corre e
si vede subito il lavoro!", si usava dire.
Le sarte erano di diverso tipo: da uomo, da donna, camiciaie e
pantalonaie. A quei tempi la parola intervallo, per il pranzo, non si
usava e tanto erano impegnate nel lavoro che tornavano a casa soltanto per
dormire; lo spuntino di mezzogiorno se lo portavano dietro,
"Devo andare ad un matrimonio, mi ci vorrebbe una vestito intero nuovo,
che faccia figura e non di tanta spesa, da poter riutilizzare anche dopo",
chiedeva un cliente alla sarta e questa :"Per me, la stoffa migliore è il
fustagno se no si va sul velluto". E così dopo misure e prove ecco il
cliente contento e rivestito a festa. Le richieste maggiori erano per le
giacche specialmente di pilorre, alla cacciatora, cioè con ampia tasca sul
dietro, utilissima per metterci cacciagione appena presa, cartucce, frutti
dei campi, colazione e boccetina di vetro schiacciata per l'acqua.
Anche le sarte da donna erano molte: alcune lavoravano sempre in casa,
altre andavano a giornata a domicilio dei clienti.
Le Camiciaie
Il taglio doveva essere preciso al millimetro, la confezione accurata, i
polsini doppi per metterci i gemelli e soprattutto il colletto
richiedevano un tempo lunghissimo, perché erano su misura. C'erano poi le
asole fatte a punto occhiello, fitto e fino da sembrare un cordoncino ed
infine un'accurata e difficile stiratura fatta con le lastre di ferro di
diverse misure, scaldate ritte davanti alla fiamma.
Non c'era sposo che non ambisse ad indossare una camicia bianca cucita a
mano.
Le
Materassaie
Gli sposi portavano anche un gran lavoro alle materassaie: c'era da fare
il materasso di lana, il coltrone di lana e il piumino di lana. Tutta la
lana era quella dell'ultima tosatura delle pecore, era stata tenuta in
bagno per qualche ora in una vasca, quindi risciacquata abbondantemente al
fosso in quell'acqua limpida che scorreva veloce, infine messa a scolare
su canne sospese fra i rami più bassi degli alberi poi, per più giorni,
fatta solinare (distesa su vecchi panni posti in terra dove il sole
picchiava più forte). Solo ora la padrona della lana, aiutata anche dalle
donne del vicinato, tutte sedute su basse seggioline con un grembiule
davanti, cominciava ad allargare: si prendeva velo per velo, ancora
tiepido di sole, e delicatamente si allargava. Il mucchio veniva così
trasformato in una nuvola bianca e leggera.
Questa lavorazione doveva essere fatta necessariamente in estate: per il
coltrone e il piumino, i veli interi, per il materasso le parti più
piccole e meno soffici.
Dalla lavorazione del coltrone e del piumino si evidenziava la bravura e
il gusto della coltronaia, perché non erano semplici quadrati, ma trapunte
da formare un disegno a rosoni evidenziato dall'impunture dei bordi. Qui
la materassaia mostrava tutta la sua abilità e il suo gusto. Il piumino,
considerato essenziale per ogni letto, era particolarmente curato: non
solo ripeteva nel piccolo il disegno del coltrone, ma era anche rifinito
intorno con un cordone di seta che ad ogni angolo formava un fiocco cucito
saldamente.
Non tutti potevano permettersi i materassi di lana e qualcuno usava il
saccone ( un grosso sacco riempito di foglie di granturco) che si metteva
sotto il materasso di crine o di lana o addirittura usato da solo. Costava
poco ed era abbastanza morbido, ma scricchiolava ad ogni movimento e
procurava un po' di lavoro, perché tutte le mattine si doveva infilare le
braccia nelle due aperture laterali e rimuovere le foglie ammucchiate e
schiacciate dal peso del corpo.
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